FRATELLO GRANDE di MAHIR GUVEN Premio Goncourt
Fratello Grande (2017), di Mahir Guven. Edizioni e/o (2018). 261 pagine, 16 euro.
“L’unica verità è la morte. Il resto è solo un elenco di dettagli… alla vita ho imparato a dare del tu proprio avvicinandomi alla morte. Flirto con l’una pensando all’altra. In continuazione, da quando quel cane di mio fratello, sangue del mio sangue, carne della mia carne, se ne è andato nella terra dei pazzi e dei fanatici.”
Inizia così il monologo di Azad, Il Fratello Grande, francese figlio di genitori siriani. Pensa in continuazione a suo fratello, Hakim, Fratello piccolo, che se ne è andato da Parigi per lavorare in una organizzazione umanitaria musulmana ma in realtà, teme Fratello Grande, per arruolarsi nella jihad. Il romanzo è un dialogo a distanza tra i due fratelli, a volte pare che parlino uno all’altro altre che parlino al lettore, proprio a me, ma in ogni caso non riesco a staccare dai loro argomenti, sentimenti, dall’incalzare degli eventi, dallo svelamento progressivo della loro condizione umana.
Costruito sapientemente il romanzo di Mahir Guven procede alternando monologhi del Fratello grande a monologhi più brevi, essenziali, disperati del Fratello piccolo.
“La settimana dopo ho iniziato a lavorare all’ospedale. Un bordello. Non avevamo niente e lì era tutto una urgenza. Non sapevo dove sbattere la testa. Quando arrivavano i pazienti, prima di tutto dovevamo capire cosa farne. C’erano i feriti, i malati ma i malnutriti e i pazzi. Mancava lo spazio per poter gestire tutto.”
Fratello grande invece vuole costruirsi a Parigi una vita “normale”, ma non è facile. Suo padre, un anziano tassista gli rimprovera di lavorare per Uber; gli rimprovera certe sue intemperanze; gli rimprovera di non essere “comunista” come lui. Fratello grande vive sul fondale meraviglioso e terribile della Parigi contemporanea.
“E’ notte, e mi piace quando di notte piove. Le gocce che si allungano sul parabrezza, le luci lontane della città che sfumano dietro la condensa, il rumore degli schizzi d’acquaotto il telaioi e il riflesso rosso delle luci di posizione sull’asfalto bagnato. Ogni tanto fertmo la macchina in un punto un po’ in alto, a les lilas, vicino al forte di romainville, per farmi una canna. Da lì si vede tutta Parigi…. ma sto posto non lo conosce nessuno…non lo so perché fa così cagare a tutti. A me fa anche incazzare che ci pigliano per la spazzatura della francia. Non è che l’abbiamo chiesto noi di conciare tutto come un triaio, ci siamo solo cresciuti dentro. I più grandi che spaccavano tutto, e noi più piccvoli che li imitavano. E domani i piccoli di oggi imiteranno noi, una specie di cultura della miseria… qui tutto funziona solo per modo di dire… e se non ci sei in mezzo è difficile da capire…è un flow che devi sentirti nelle budella…non diventi un banlieu sui banchi dell’università. La laurea te la becchi consumandoti le suole sul cemento, poi un master facendo a botte per la grana, e magari un dottorato il giorno che i tuoi piedi fanno su e giù nel cortile della prigione.”
Le svolte narrative
C’è una prima svolta narrativa nel romanzo di Guven, quando Fratello piccolo torna. Dove è stato veramente? Che cosa ha fatto? E una seconda, quando accade qualcosa di terribile che coinvolge entrambi i fratelli. La trama mi trascina coerentemente verso il suo esito, sospinta da personaggi che non si dimenticano facilmente. La scrittura è curata e alterna il parlato a momenti più lirici. La cronaca del rapporto tra i due Fratelli e il padre sta tutta dentro la grande Storia contemporanea della immigrazione e della incomprensione tra le culture. Forse l’autore (figlio di rifugiati in Francia come i suoi personaggi) ha usato l’espediente dei due fratelli per rappresentare la doppia anima che convive dentro a molti giovani musulmani francesi. Un libro prezioso per capire un altro punto di vista, una altra condizione umana. Da non perdere.